Testo originale e traduzione in italiano.

WHO BY FIRE

And who by fire, who by water,
who in the sunshine, who in the night time,
who by high ordeal, who by common trial,
who in your merry merry month of May,
who by very slow decay,
and who shall I say is calling?(1)

And who in her lonely slip,(2) who by barbiturate,
who in these realms of love, who by something blunt,
and who by avalanche, who by powder,
who for his greed, who for his hunger,
and who shall I say is calling?

And who by brave assent, who by accident,
who in solitude, who in this mirror,
who by his lady’s command, who by his own hand,
who in mortal chains, who in power,
and who shall I say is calling?.

CHI PER FUOCOLeonard Cohen testi e traduzioni

E chi per fuoco, chi per acqua
Chi sotto il sole, chi di notte,
Chi per alta ordalia, chi per comune processo,
Chi nel suo festoso mese di maggio.
Chi per lentissimo declino,
E chi devo dire fa la chiama?

E chi nella sua solinga sottoveste, chi per barbiturico,
chi in queste terre d’amore, chi per qualcosa di spuntato,
e chi per valanga, chi per polvere,
chi per ingordigia, chi per fame,
E chi devo dire fa la chiama?

E chi per coraggioso assenso, chi per incidente,
chi in solitudine, chi in questo specchio,
chi per ordine della sua donna, chi per mano propria,
chi in catene mortali, chi al potere,
E chi devo dire fa la chiama?

Traduzione italiana del testo originale di Leonard Cohen: © Yuri Garrett/Leonardcohen.it 2015. Non riprodurre senza previo permesso.

Who By Fire è, senza tema di smentita, una delle canzoni più spirituali di Cohen. In concerto è immancabilmente preceduta da una lunga introduzione strumentale, che dal 2008 in poi è stata affidata alle sapienti dita di Javier Mas.

Cohen ne ha parlato in maniera molto diretta in The Song of Leonard Cohen del 1979:

«La canzone deriva in maniera piuttosto diretta da una preghiera che viene cantata il giorno dell’espiazione, o la vigilia del giorno dell’espiazione. Secondo la tradizione viene aperto il Libro della Vita, al cui interno è scritto il nome di chi morirà nell’anno seguente. Nella preghiera sono catalogati tutti i modi in cui si può abbandonare questa valle di lacrime. La melodia, se non del tutto rubata, è senz’altro derivata dalla melodia che ascoltavo in sinagoga da bambino. Ma ovviamente la conclusione della canzone è ben diversa: “Chi devo dire fa la chiama?”
– E chi fa la chiama?
– Beh questo è quel che rende la canzone una preghiera secondo i miei canoni, ossia chi o cosa determina chi vivrà e chi morirà?»

In realtà, la Unetaneh Tokef Kedushat Ha-Yom o più semplicemente Unetaneh Tokef (il cui significato può essere approssimativamente reso con ‘Proclamiamo ora la grande santità di questo giorno’) non è una preghiera vera e propria, nel senso che non si trova nei libri sacri. Si tratta piuttosto di una di una poesia religiosa, o piyyut, che la leggenda (smentita però da più fonti anche archeologiche) attribuisce a un non meglio specificato rabbino di Magonza di nome Amnon (o Amman) vissuto nel secolo XI. Questi, soggetto a pressioni dall’arcivescovo di Magonza affinché si convertisse al cristianesimo, chiese tre giorni per pensarci su. Passò i tre giorni in preghiera, pentito per aver solo considerato l’oltraggiosa possibilità di una conversione, e quando fu portato a forza dinanzi all’arcivescovo chiese che gli venisse tagliata la lingua per espiare il grave peccato. L’arcivescovo ordinò invece che gli venissero amputati gli arti ad uno ad uno, fino alla conversione, che però non avvenne. Il giorno di Rosh Hashanah, il capodanno ebraico, ormai in punto di morte, il rabbino chiese di essere condotto in sinagoga, dove con le ultime forze recitò la Unetaneh Tokef di fronte all’Arca.

Davanti all’Arca si recita ancora oggi questa poesia liturgica, con i fedeli in piedi. E’ interessante che Cohen ricordi di averla sentita il giorno di Yom Kippur, a testimonianza dell’appartenenza della sua famiglia al rito polacco (che la recita sia a Rosh Hashanah che a Yom Kippur) e non a quello ashkenazita (che la recita solamente a Rosh Hashanah) o a quello sefardita (che non la recita affatto).
Secondo gli studi più recenti, la poesia potrebbe essere attribuibile a Yannai, un prolifico poeta liturgico vissuto in Israele nella prima metà del 7° secolo e.v., ma non vi sono certezze al riguardo.

La Unetaneh Tokef consta di quattro paragrafi, di cui quello che ci interessa è il secondo:

A Rosh Hashanah è stato scritto
E a Yom Kippur è stato sigillato
Quanti lasceranno la terra e quanti verranno creati
Chi vivrà e chi morirà
Chi morirà secondo il suo destino e chi prima
Chi per spada e chi per fiera
Chi per fame e chi per sete
Chi per catastrofe e chi per peste
Chi per strangolamento e chi per lapidazione
Chi avrà pace e chi errerà
Chi vivrà in armonia e chi infastidito
Chi sarà tranquillo e chi soffrirà
Chi diventerà povero e chi diventerà ricco
Chi sprofonderà e chi verrà innalzato
Ma la redenzione, la preghiera e le opere buone
Annullano la malvagia sentenza.

Il debito di Cohen è evidente.

NOTE AL TESTO
(1) Il verso che distacca il testo di Cohen da quello di riferimento. Molti commentatori hanno notato come «Who shall I say is calling» si richiami ad un inglese formale, come di una segretaria che rispondesse al telefono “Chi devo dire che chiama?”.
‘Calling’ può però voler dire sia ‘fare l’appello’ (nel senso illustrato dallo stesso Cohen nel 1979) sia ‘chiamare’ come nelle danze figurate (quindi con un riferimento a un’entità esterna che decide per gli altri) e pertanto sono a nostro avviso traduzioni fedeli sia “chi fa l’appello” sia “chi mena la danza”, nel senso di “chi è che decide il destino degli uomini?”. Ne consegue che l’interpretazione che sottenda un possibile “uso telefonico” da parte di Cohen sembra sufficientemente fuori strada.
Tuttavia, per non perdere del tutto questo possibile riferimento, abbiamo infine scelto “chi fa la chiama” per trattenere in italiano – almeno alla lontana – il tema della ‘chiamata’.
(2)Questo è probabilmente il verso più criptico della canzone. Al modo tipico di Cohen, si presta a diverse letture. L’inglese ‘Slip’ è al contempo un errore (quindi un riferimento a un errore commesso in solitudine) e una sottoveste. L’immagine che ne deriva è quella di una donna che sbaglia in solitudine, ma viene evocata anche una quasi nudità. Per non perdere del tutto questo riferimento, abbiamo preferito tradurre ‘solinga sottoveste’, accennando così alla solitudine di una donna che trapassa in abbigliamento intimo, forse riflettendo sui suoi errori amorosi.

2 commenti
  1. Livia
    Livia says:

    Lascio un commento qui per ringraziarvi per le belle traduzioni e le note interessanti che accompagnano i brani di Leonard Cohen. E’ bello, in questo momento, condividere il dolore per la sua scomparsa e l’amore verso di lui

    Rispondi

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